Alzheimer e rette RSA

I costi di ricovero nelle RSA devono essere posti a carico di chi?

Quando una persona affetta dal morbo di Alzheimer ha la necessità di essere ricoverata e assistita in una residenza socioassistenziale per lunghi periodi di degenza – sostanzialmente senza un termine – il malato e la sua famiglia si trovano a affrontare una spesa spesso elevata che si impegnano a sostenere con la firma di cd. “contratti di ospitalità” con le RSA.

Le prestazioni ricevute dal malato hanno in questi casi sia una componente “sanitariasia una componente “assistenziale”: così stando le cose, i relativi costi devono essere sostenuti interamente dal Servizio sanitario nazionale o è legittimo chiedere, e in che misura, una “compartecipazione” economica all’ammalato e ai suoi familiari?

LA SUCCESSIONE NEL TEMPO DELLE VARIE PREVISIONI NORMATIVE

Si tratta di un tema complesso e rispetto al quale la stratificazione e la successione delle normative e una lettura “frettolosa” e non contestualizzata di alcune sentenze ha fatto prendere qualche pericoloso abbaglio circa la automaticità della attribuzione di tutti i costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale.

LA SENTENZA DI “APERTURA” DEL TRIBUNALE DI MONZA NEL 2017

Tra le sentenze in parte “equivocate” va segnalata, per cominciare a dare una risposta alle domande, la sentenza n. 617/2017 del Tribunale di Monza.

Il caso esaminato dal giudice monzese

Una RSA chiedeva e otteneva un decreto ingiuntivo nei confronti di una paziente affetta da Alzheimer per il pagamento della retta di assistenza e degenza presso una struttura gestita dalla RSA.

La paziente, attraverso il suo amministratore di sostegno, faceva opposizione al decreto sostenendo che non vi fosse, né a suo carico né a carico dei suoi familiari, alcun obbligo di pagamento della retta di ricovero in forza di quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 4558/2012, della quale subito dopo si dirà.

Secondo i familiari della paziente l’impegno al pagamento – che pure era stato sottoscritto dalla paziente – era da considerarsi nullo in base alla citata sentenza della Cassazione e dunque il decreto ingiuntivo da revocare; anzi, la paziente chiedeva la restituzione di quanto era stato fino ad allora pagato a titolo di retta in quanto ugualmente non dovuto e indebitamente percepito dalla RSA.

L’ampia disamina del Tribunale di Monza

Il Tribunale di Monza, nelle motivazioni della sentenza n. 617/2017, ha effettuato una sintetica ricognizione dello stato della normativa e della giurisprudenza al momento della sua pronuncia.

Il tribunale monzese ha innanzitutto ricordato che l’art. 30 della legge n. 730/1983 – la legge finanziaria 1984 – aveva statuito che i costi delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socioassistenziali fossero a carico del fondo sanitario nazionale.

Il richiamo alle sentenze n. 4558/2012 e n. 22776/2016 della Corte di Cassazione

Il giudice ha rammentato che Cassazione, interpretando in senso letterale la norma citata, con la sentenza n. 4558/2012 – confermata dalla successiva sentenza n. 22776/2016 – aveva ritenuto che tutti gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali dovessero ritenersi a carico del fondo sanitario.

Il giudice di legittimità aveva attribuito una valenza preminente alla natura sanitaria delle suddette attività “di rilievo sanitario” tale da “assorbire” nel loro regime di imputazione dei costi anche le connesse prestazioni meramente di assistenza e di supporto alla persona.

La Cassazione, in definitiva, aveva stabilito il principio in base al quale quando la prestazione sanitaria e quella di assistenza hanno una correlazione tanto stretta da renderle di fatto inscindibili, entrambe sono di totale competenza del servizio sanitario.

L’entrata in vigore del DPCM 8.8.1985

Il Tribunale di Monza ha poi sottolineato come l’art. 1 DPCM del 1985, rafforzando tale orientamento della Cassazione, aveva ulteriormente precisato che sono attività di rilievo sanitario – quindi a carico del SSN – quelle che, pur richiedendo personale e tipologie d’intervento propri dei servizi socioassistenziali, sono però diretti in via prevalente alla tutela della salute del paziente attraverso veri e propri piani di cura e terapia e/o di riabilitazione fisica e psichica.

La disciplina introdotta dal DPCM 14.2.2001

Da ultimo, il giudice monzese ha rammentato quanto previsto dal successivo DPCM 14.2.2001 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni sociosanitarie) che ha puntualizzato una “tripartizione” dei servizi sanitari e socioassistenziale sia quanto a finalità sia quanto a imputazione di spesa.

La distinzione tra le tre tipologie di prestazione nel DPCM 14.2.2001

Il Tribunale di Monza ha ricordato che, ai sensi dell’art.3 del DPCM 14.2.2001, si deve distinguere tra:

  1. prestazioni sanitarie a rilevanza sociale: sono queste le prestazioni sanitarie erogate contestualmente a interventi sociali e finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi delle patologie con lo scopo di favorire la partecipazione alla vita sociale dei soggetti malati. Queste prestazioni, inserite in progetti personalizzati sulla persona, in vigenza del DPCM 14.2.2001, sono di competenza delle ASL ed a carico delle stesse.
  2. prestazioni sociali a rilevanza sanitaria: sono tutte le attività del sistema welfare che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione che ne condizionano lo stato di salute; sono di competenza dei Comuni e sono prestate con partecipazione alla spesa da parte dei cittadini, stabilita dai Comuni stessi. Tra esse rientra anche la cd. ospitalità alberghiera presso strutture residenziali e semiresidenziali di anziani non autosufficienti e non assistibili a domicilio.
  3. prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria (cd. prestazioni sanitarie in senso stretto): sono le prestazioni che hanno una particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria e che possono anche essere erogate nell’ambito di strutture residenziali e semiresidenziali; presuppongono l’inscindibilità di più apporti professionali sia sanitari sia sociali i quali, solo congiuntamente, possono realizzare i risultati programmati. Queste prestazioni sono di competenza delle ASL e sono a carico del fondo sanitario nazionale.

 Come individuare la categoria alla quale ascrivere le prestazioni della RSA ?

Per stabilire in quale categoria rientrino le prestazioni fornite dalla RSA a un paziente – e il conseguente regime di spesa – il Tribunale di Monza ha chiarito che occorre sempre valutare in concreto, da un lato, lo stato di salute del paziente durante il periodo del ricovero presso la RSA e, d’altro lato, le esigenze terapeutiche specifiche che sono – o avrebbero dovuto essere – assicurate dal ricovero.

Dai documenti di causa, il Tribunale di Monza concludeva che la paziente era affetta, oltre che dal morbo di Alzheimer – per il quale necessitava di continua assistenza e sorveglianza – anche di concomitanti gravi patologie (tra le quali una di natura oncologica) che richiedevano un continuo monitoraggio, una frequente assistenza infermieristica, in particolare per le medicazioni quotidiane e per la sorveglianza dei markers biochimici di malnutrizione.

Pertanto, secondo il Tribunale, le prestazioni erogate alla paziente dalla RSA dovevano ritenersi di carattere prevalentemente sanitario e quindi essere poste a totale carico del servizio sanitario.

Le conclusioni del Tribunale di Monza

Il giudice monzese decideva quindi di rigettare la domanda di pagamento della retta proposta dalla RSA e revocava il decreto ingiuntivo precedentemente emesso; dichiarava anche nullo l’impegno al pagamento giornaliero della retta sottoscritto dalla paziente rilevando, sulla scorta delle sentenze della Cassazione del 2012 e del 2016 già richiamate, che l’obbligo era privo di causa, posto che le spese di “ricovero” erano a carico del servizio sanitario.

La sentenza n. 617/20117 quindi, ha escluso la compartecipazione alla spesa da parte del paziente avendo accertato nel merito che le prestazioni ricevute erano ad alta integrazione sanitaria – e quindi a totale carico del SSN – in quanto, in definitiva, avevano una prevalente componente di cura medica.

IL “NUOVO” INTERVENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE CON LA SENTENZA N. 28321/2017

La Corte di Cassazione, con sentenza 28321/2017, è nuovamente intervenuta a chiarire che, accanto alle “prestazioni sanitarie in senso stretto” – interamente a carico del Servizio sanitario pubblico – vi sono quelle prestazioni – le prestazioni sanitarie di rilevanza sociale – nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili.

Per queste ultime la spesa pubblica copre la sola parte sanitaria della prestazione stessa.

La imputazione forfettaria al 50% delle spese mediche

Tuttavia, proprio in quanto non risulta concretamente possibile distinguere e separare, in questa prestazione “complessa”, i singoli servizi, la normativa ha deciso di individuare e quotare in modo forfettario, nella percentuale del 50% del costo totale della retta della RSA, la componente sanitaria della prestazione.

LA SUCCESSIVA GIURISPRUDENZA DI MERITO

Si sono nel tempo susseguite molte sentenze – sia dei Tribunali che delle Corti d’appello – a seguito di cause intentate che pazienti di RSA o da loro familiari, facendo richiamo alla sentenza della Cassazione e, in qualche occasione, anche al precedente del Tribunale di Monza, hanno intentato nei confronti delle RSA o delle ASL per opporsi alla richiesta di pagamento delle rette e/o per domandare la restituzione di quelle già pagate, a loro parere indebitamente.

LA SENTENZA N. 1043/2020 DEL TRIBUNALE DI ANCONA

Il caso

La figlia di un paziente malato di Alzheimer aveva firmato nel 2007 con una RSA un cd.  “contratto di ospitalità definitivo” per il proprio padre titolare e poi corrisposto, per la complessiva permanenza del genitore nella RSA, parecchie decine di migliaia di euro a titolo di retta di ricovero.

La signora citava in giudizio la RSA per chiedere la restituzione delle somme pagate sul convincimento che le prestazioni erogate fossero di natura “prevalentemente” sanitaria e che, dovendosi ritenere il contratto di ospitalità nullo sulla base della sentenza della Cassazione del 2012, esse dovessero restare totalmente a carico del Servizio sanitario.

L’esame in concreto della cartella clinica e delle prestazioni fornite dalla RSA

Il giudice marchigiano, esaminata la cartella clinica del paziente e verificate la qualità, la quantità e la tipologia delle prestazioni effettuate, oltre che lo stato di salute del paziente nel corso della degenza, respingeva la tesi della figlia del paziente e affermava che, al contrario, l’assistenza “sanitaria” prestata dalla RSA non fosse stata prevalente rispetto alla contestuale assistenza di carattere socioassistenziale.

Le patologie del padre addotte dalla figlia – che rientravano tra quelle che generalmente colpiscono pazienti della fascia di età alla quale apparteneva il paziente – erano da ritenersi tutte gestibili anche in regime di assistenza domiciliare con l’assistenza Ausiliari Socio-Assistenziali ed Operatori Socio Sanitari che, di fatto, erano quelli che le avevano fornite anche all’interno della RSA.

Il Tribunale anconetano precisava che la totale dipendenza nelle attività elementari della vita quotidiana né i disturbi del comportamento connessi, tutti “trattabili” con prestazioni di natura assistenziale e non medica, potessero ricondursi a esigenze di natura sanitaria propriamente intese.

Pertanto, le prestazioni fornite dalla RSA erano da considerare, ai sensi del DPCM 14.02.2001, delle “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” si tratta, ovvero, di prestazioni che ai sensi dell’art. 3 del DPCM 14.02.2001 rientrano nella categoria.

Il giudice sottolineava inoltre che il riferimento fatto dalla signora alle sentenze N. 4558/2012 e 22776/2016 fosse irrilevante e improprio poiché queste erano state pronunciate relativamente a casi disciplinati, per ragioni temporali, dalla disciplina precedente al DPCM 14.2.2001.

L’entrata in vigore del DPCM 12.01.2017 

Da ultimo, il Tribunale di Ancona evidenziava come fosse poi intervenuto, sostituendo integralmente il D.P.C.M. 20.11.2001, il successivo DPCM 12.01.2017.

La nuova disciplina ha posto a carico del Servizio Sanitario Nazionale, per la sola quota del 50% della tariffa giornaliera, il costo dei trattamenti di “lungo assistenza, recupero e mantenimento funzionale “garantiti alle persone non autosufficienti nell’ambito della assistenza sociosanitaria residenziale e semiresidenziale.

Nello stesso senso di pronunciati, tra gli altri, Tribunale di Forlì – con la sentenza m. 258/2020– il Tribunale di Milano – con la sentenza n. 2667/2020.

CONCLUSIONI

Si può concludere dunque che i costi di ricovero nelle RSA di malati di Alzheimer possono imputarsi totalmente al servizio sanitario quando sono “ad alta integrazione sanitaria”, ossia quando sono prevalentemente di cura medica in senso stretto rappresentando di fatto l’unica soluzione terapeutica per il mantenimento in vita della persona.

Ove questa caratteristica manchi, deve considerarsi legittima la partecipazione alle spese, in percentuale non superiore al 50% del totale, del paziente.

Resta dunque sempre imprescindibile la attenta e corretta valutazione della cartella clinica del paziente.

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