Il silenzio può avere valore giuridico di consenso nell’ordinamento italiano ?

Il silenzio, in linea generale, non ha nell’ordinamento italiano il valore giuridico di consenso, sia pure tacito, per la conclusione o la modifica di un contratto sottoscritto dalle parti. Vi sono tuttavia circostanze ricorrendo le quali anche il silenzio assume un preciso significato ed effetto giuridici.

IL SILENZIO NELL’ORDINAMENTO ITALIANO: CENNI GENERALI

L’art. 1326 del Codice civile prevede infatti che un contratto si concluda quando alla proposta di una parte faccia seguito – senza che siano apportate modifiche al contenuto – l’accettazione dell’altra: la necessità di una proposta e di una accettazione “convergenti” su un medesimo contenuto presuppone quindi che debba esserci l’espressione di un consenso da parte di entrambi i contraenti.

Quello che può cambiare è la modalità con la quale può o deve essere espresso il consenso.

Modalità di espressione del consenso: dichiarazione espressa o condotta concludente

Il consenso, salvo che la legge non prescriva una determinata forma, può essere scambiato semplicemente con delle dichiarazioni orali, modalità che, se da un lato facilita la conclusione del contratto, dall’altra può creare il problema di provare l’avvenuta conclusione dello stesso o dimostrare il suo esatto contenuto.

La dichiarazione espressa scritta e orale

Il consenso può essere poi scambiato in forma scritta, mediante lo scambio di dichiarazioni a distanza – via posta o via mail – oppure con la sottoscrizione da parte dei contraenti di una scrittura privata o – se necessario – di una scrittura fatta davanti a un pubblico ufficiale quale, ad esempio, un notaio.

Il consenso può infine essere perfino espresso, da una o da entrambe le parti, attraverso quella che si definisce una “condotta concludente”, ossia un comportamento non verbale, né orale né scritto, che manifesti comunque in maniera inequivoca la volontà di concludere un contratto.

Esempi di condotte concludenti che esprimono una volontà contrattuale

Si pensi, ad esempio, al contratto di acquisto di una merce che si conclude quando una parte ordina on-line il bene e questo gli viene inviato senza che la spedizione – ossia l’“esecuzione” materiale del contratto – sia preceduta da una accettazione (orale o scritta) esplicita dell’ordine; oppure al contratto di trasporto su mezzi pubblici che si conclude con l’acquisto a un distributore automatico di un titolo di viaggio – elettronico o cartaceo – e alla successiva salita sul mezzo da parte del trasportato.

Queste condotte, in quanto “inequivocabili” della volontà di concludere ed eseguire un contratto di acquisto o un contratto di trasporto, non possono costituire ipotesi di silenzio nel senso di mancata manifestazione di volontà e quindi assenza di effetti giuridici.

Il silenzio non è sempre condotta concludente

Tuttavia, non sempre la distinzione tra condotta concludente e silenzio – nel senso appena precisato – è così chiara e netta: può sorgere quindi la necessità di capire se la mancata manifestazione “esplicita” di una volontà configuri una condotta concludente con effetti giuridici o sia un silenzio che non esprime volontà alcuna e sia quindi privo di conseguenze giuridiche.

INADEMPIMENTO DEL CONTRATTO QUALE CAUSA DI SCIOGLIMENTO DELLO STESSO

L’art. 1372 del Codice civile prevede che il contratto concluso dalle parti abbia “forza di legge” tra le stesse: secondo la stessa norma le pattuizioni contrattuali convenute possono poi essere sciolte solo se, con un nuovo e successivo accordo – quindi ancora un atto di volontà delle parti – queste ultime decidono di farle “venire meno” oppure quando si verifica una delle cause di scioglimento previste dalla legge.

Tra queste ultime, la causa più frequente è l’inadempimento alle pattuizioni contrattuali posta in essere da una delle parti: la controparte, ai sensi dell’art. 1453 del Codice civile, può contestare questa condotta e chiedere la risoluzione – ovvero lo scioglimento – del contratto per responsabilità dell’altra.

Può tuttavia succedere, nella pratica, che una parte – senza che vi sia una modifica espressa delle stesse – non rispetti in tutto o in parti le pattuizioni contrattuali e l’altra “tolleri” questo comportamento senza tuttavia contestarlo: che effetto ha questa tolleranza “silenziosa” durante la quale una parte accetta di ricevere un’esecuzione difforme del contratto o addirittura di non ricevere affatto la prestazione dovuta?

TOLLERANZA DELL’INADEMPIMENTO DELL’ALTRA PARTE AGLI OBBLIGHI CONTRATTUALI: QUALI EFFETTI?

Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 8643/2018, ha fornito una possibile risposta a questo quesito pronunciandosi all’esito di una causa che vedeva contrapposte, da una parte, una società produttrice di bigiotteria e, dall’altra, un suo distributore esclusivo su tutto il mercato nazionale.

I fatti di causa

Tra le parti era stato sottoscritto un contratto di distribuzione della durata di un anno che prevedeva – in considerazione della particolare qualità dei prodotti – che gli stessi venissero commercializzati dal distributore esclusivista soltanto attraverso una rete di rivenditori al dettaglio costituiti da gioiellerie in possesso di particolari requisiti di “qualità” imposti dal produttore e specificati nel contratto.

Alla scadenza annuale, il contratto di distribuzione proseguiva “di fatto” alle stesse condizioni per un altro paio d’anni e il produttore scopriva che il distributore, senza autorizzazione alcuna, aveva iniziato a distribuire i prodotti anche attraverso rivenditori al dettaglio quali profumerie, negozi di abbigliamento, pelletterie e persino farmacie, non rispettando in tal modo il criterio della “rete selezionata” di rivenditori pattuita contrattualmente.

Le domande delle parti al Tribunale di Milano

Il produttore contestava tale condotta al distributore e invocava la risoluzione del contratto a causa dell’inadempimento, da parte di quest’ultimo, alle pattuizioni contrattuali sulle modalità di distribuzione dei prodotti.

Il distributore, da parte sua, contestava la risoluzione invocata dal produttore sostenendo che la distribuzione attraverso canali differenti dalle gioiellerie era da tempo a conoscenza del produttore – che ne aveva avuto contezza nel corso di periodici controlli – e dallo stesso accettata e che quindi nessun inadempimento al contratto poteva essergli contestato sotto questo specifico profilo.

La controversia approdava infine davanti al Tribunale di Milano.

VALUTAZIONE DEL TRIBUNALE DI MILANO

Il giudice, nell’esaminare il contratto di distribuzione, rilevava che lo stesso prevedeva la facoltà, per il distributore, di avvalersi di una rete di distributori costituiti anche da esercizi commerciali diversi dalle gioiellerie a condizione, tuttavia, che ne avesse dato tempestiva informazione al Produttore e attendesse dallo stesso un’autorizzazione al riguardo.

Durante l’istruttoria della causa emergevano però due circostanze significative.

In primo luogo, il distributore riusciva a provare che il produttore aveva tollerato, per un periodo di tempo significativo, l’utilizzo di canali distributivi diversi dalle gioiellerie e che, al riguardo, non aveva mai sollevato – pur non potendo ignorare la circostanza – obiezione alcuna.

 In secondo luogo, il Tribunale rilevava che, sebbene fosse prevista la necessità di una preventiva autorizzazione da parte del produttore per l’uso di canali distributivi diversi dalle gioiellerie, il contratto richiedeva la necessità di una autorizzazione in forma scritta solo per l’utilizzo del canale distributivo costituito dalle vendite on-line sul sito di e-commerce del distributore stesso.

CONCLUSIONI

Il Tribunale di Milano concludeva dunque che la comprovata conoscenza, da parte del Produttore, della circostanza che i suoi prodotti venissero rivenduti attraverso canali diversi dalle gioiellerie, combinata alla dimostrata tolleranza della stessa per un periodo significativo di tempo, dovesse intendersi come una tacita accettazione delle diverse modalità distributive poste in essere dal distributore, e quindi in una vera e propria autorizzazione alle stesse per fatto concludente.

Tutto quanto considerato, il Tribunale di Milano ha ritenuto che l’inadempimento contestato dal produttore al distributore fosse insussistente in quanto non vi era stata violazione alcuna, da parte del secondo, delle pattuizioni contrattuali in punto di rivendita dei prodotti.

Al contrario, il giudice meneghino concludeva che il produttore avesse invocato in maniera strumentale e in malafede la clausola risolutiva espressa quando non aveva ottenuto, dal Distributore, la sottoscrizione di un nuovo contratto a condizioni a sé più favorevoli.

 

 

 

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