Come i conduttori e i locatori danneggiati dal lockdown possono tutelarsi

L’emergenza Covid-19 ha evidenziato, almeno in parte, l’incapacità dei tradizionali strumenti offerti dal diritto italiano di risolvere questioni cruciali sorte tra le parti di contratti di locazione commerciale o gli affitti d’azienda – che rientrano nella categoria dei contratti di durata a titolo oneroso – al verificarsi di eventi eccezionali e imprevedibili quali i fermi dell’attività – i cosiddetti cd. lockdown – imposti dalle autorità per ragioni di sanità e sicurezza pubbliche.

Negozi chiusi, fatturati crollati e nuovi costi per le riaperture in sicurezza; e i canoni di locazione ?

Chiusure forzate per le le misure restrittive introdotte dal Governo

Molti negozianti o esercenti di attività economiche si sono trovati, nei mesi di marzo, aprile e in parte maggio 2020 – e poi nuovamente da ottobre 2020 – a non poter aprire negozi o aziende (o a non poterlo fare in determinate zone territoriali nel week-end) a causa delle misure restrittive introdotte dai vari DPCM emessi dal governo per contrastare la diffusione dell’epidemia.

Ma anche successivamente, sempre per le medesime ragioni, alcune categorie di esercenti si sono visti ordinare la chiusura, parziale o totale, delle loro aziende ritenute, per la particolare natura delle attività nelle stesse svolta, a elevato rischio di trasmissione del virus.

Aumento costi di gestione per limitazione accessi alla riapertura

Da ultimo, quasi tutti gli esercizi hanno potuto riaprire la loro attività – quando le disposizioni di lockdown si sono allentate o sono state soppresse – solo a fronte di una forte limitazione all’accesso della clientela, e con modalità di vendita di merce o erogazione dei servizi, ritenute necessarie alla tutela della sicurezza di dipendenti e clienti – implementate a fronte di spese che hanno aumentato i costi fissi di gestione.

A fronte dell’azzeramento totale del fatturato durante il periodo di totale chiusura o della sua consistente contrazione dopo la riapertura, gli esercenti si sono sentiti per contro richiedere dai locatori o dai proprietari delle aziende in affitto l’intero ammontare dei canoni pattuiti nei contratti.

PROPRIETARI E CONDUTTORI O AFFITTUARI DI FRONTE AL LOCKDOWN: INTERESSI CONFLIGGENTI E INCONCILIABILI?

Da una parte c’erano – e ci sono – dunque i conduttori di locali commerciali e gli affittuari delle aziende che hanno visto venire meno, o quanto meno sostanzialmente diminuire, “l’utilità economica” degli immobili oggetto dei contratti di locazione di affitto di azienda quando, durante la chiusura imposta delle attività economiche, i negozi si sono di fatto trasformati gli stessi, da luoghi di commercio, in magazzini di merce invenduta o meri depositi o di attrezzatura ferma.

Dall’altra i proprietari dei beni immobili o delle aziende che, avendo compiutamente assolto alla consegna, al conduttore o all’affittuario, dei locali o dei beni aziendali – che è la prestazione caratterizzante dei contratti di locazione e affitto di azienda – hanno sostenuto e sostengono il loro diritto di percepire per intero i canoni pattuiti, non essendo loro responsabili del successivo “mancato pieno godimento” dei beni.

Escussione delle fideiussioni o delle garanzie collegate ai contratti di locazione e affitto

Un’ulteriore criticità è sorta dalla circostanza sempre più spesso i contratti di locazione commerciale o di affitto d’azienda sono assistiti, in alternativa al tradizionale deposito cauzionale in denaro, da fideiussioni a prima richiesta bancarie rilasciate a garanzia del pagamento dei canoni e degli altri oneri.

La richiesta del pagamento del corrispettivo è stata spesso accompagnata dai proprietari con l’avviso di un’eventuale escussione delle citate garanzie in caso di mancato saldo dei canoni, eventualità che, se realizzata, poteva causare la compromissione del rating creditizio dei conduttori o affittuari presso il sistema bancario.

Le questioni aperte hanno portato alcuni Tribunali a emettere sulle varie questioni una serie di provvedimenti in via d’urgenza che richiedono, per una corretta comprensione, un necessario excursus sullo “stato” dell’arte della normativa dettata a regolare le conseguenze di un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originariamente assunte dalle parti contraenti.

RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER ECCESSIVA ONEROSITÀ SOPRAVVENUTA AI SENSI DELL’ART. 1467 CODICE CIVILE

L’art. 1467 c.c., in tema di contratti a esecuzione continuata o periodica – quali la locazione commerciale e l’affitto di azienda – prevede che, se la prestazione di una delle parti diviene eccessivamente onerosa a causa di un avvenimento straordinario e imprevedibile successivo alla conclusione del contratto, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto.

Deve dunque verificarsi uno squilibrio tra le prestazioni delle due parti derivante da un evento eccezionale – statisticamente poco frequente – e imprevedibile – ovvero tale da non poter essere, in base alle conoscenze e all’esperienza delle parti, né previsto né messo in conto al momento della firma del contratto.

Pacificamente lo scoppio dell’epidemia Covid-19 – e la conseguente decisione di imporre il lockdown da parte dell’autorità pubblica – integrano la fattispecie prevista dall’art. 1467 c.c.

Limiti della tutela assicurata dalla norma sulla eccessiva onerosità sopravvenuta

Questo rimedio, posto a tutela della parte “danneggiata” dall’evento, presenta tuttavia due limiti che possono renderlo non particolarmente appetibile per chi potrebbe servirsene: in primo luogo, in caso di divergente apprezzamento delle parti sulla effettiva sussistenza della eccessiva onerosità sopravvenuta, la stessa, per condurre allo scioglimento del contratto, deve essere accertata da un giudice e, fino alla sentenza, il contratto continua ad esistere e a produrre i suoi effetti.

Il che significa, tradotto nella pratica, che il conduttore o l’affittuario sono frattanto tenuti a corrispondere i canoni pattuiti nei contratti.

Il secondo limite sta nel fatto che non sempre il locatore o l’affittuario hanno il desiderio o l’interesse a liberarsi definitivamente del contratto quanto piuttosto quello di veder ricondurre a un “equilibrio” sostenibile, con una riduzione del canone di locazione o affitto, i reciproci obblighi delle parti.

RECESSO ANTICIPATO EX ART. 27 LEGGE 392/1978

La Legge 392/1978 – che disciplina le locazioni urbane – prevede che i contratti di locazione ad uso commerciale abbiano una durata, non derogabile dalle parti, di almeno 6 anni. Le parti possono inserire nel contratto, a favore del solo conduttore, la possibilità di recedere prima della scadenza – il cd. recesso convenzionale – con obbligo di dare un preavviso a favore del proprietario.

Tuttavia, anche in assenza del recesso convenzionale, il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto dando al locatore un preavviso di almeno sei mesi.

Gravi motivi che consentono il recesso del locatore

Ma cosa deve intendersi per gravi motivi?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n° 5803/2019, ha chiarito che sono gravi motivi quelli derivanti da fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla sottoscrizione del contratto i quali rendano al conduttore “gravosa” la prosecuzione del rapporto.

Insomma, deve trattarsi di cause oggettive e non soggettive.

Il locatore può però contestare la sussistenza dei gravi motivi addotta dal conduttore e la conseguenza è l’inevitabile apertura di un contenzioso giudiziale – non di non pronta né di facile soluzione – nel quale il conduttore deve provare la sussistenza delle circostanze che intende far valere.

Obbligo di riconoscere al proprietario il preavviso previsto dalla legge

Il recesso in oggetto si risolve dunque in un rimedio che non esenta in ogni caso il conduttore dall’assicurare al locatore un preavviso di almeno sei mesi e il pagamento, nel relativo periodo – fatto salvo diverso accordo tra le parti – del canone contrattualmente stabilito.

Oltre a questo, lo strumento del recesso previsto dalla Legge 392/78 – essendo questa una legge speciale sulle locazioni di immobili urbani – non può in ogni caso essere applicato per analogia agli affitti di azienda o di rami di azienda quali sono ad esempio, almeno formalmente, tutti i contratti dei negozi aperti nei centri commerciali.

ART. 91 DEL DECRETO-LEGGE 18 MARZO 2020, CD. “CURA-ITALIA”

L’art. 91 del Decreto-legge 18 marzo 2020, cd. “Cura-Italia”, convertito nella Legge 27/20, ha inserito una norma che riguarda proprio la gestione dei contratti in essere allo scoppio della pandemia.

Secondo tale norma, il rispetto delle misure di contenimento da Covid-19 – tra le quali la chiusura dei negozi e delle attività non comprese tra quelle escluse dall’ordine del lockdown (N.d.R.) deve sempre essere tenuto in considerazione per valutare l’esclusione della responsabilità del contraente che si sia reso inadempiente alla propria prestazione, e questo anche ai fini dell’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse ai ritardati o omessi adempimenti.

Inadempimento dovuto al Covid-19 e mancanza di responsabilità

Applicato ai contratti di locazione o affitto, la norma può in sostanza intendersi nel senso che il mancato o ritardato pagamento dei canoni “giustificato” dal rispetto delle misure emergenziali potrebbe essere valutato al limitato fine di escludere la responsabilità per inadempimento del conduttore o dell’affittuario e, allo stesso tempo, al fine di vagliare la legittimità – almeno sotto il punto di vista della buona fede nella esecuzione del contratto – dell’applicazione, da parte dei locatori o proprietari dell’azienda, di penali, quali, ad esempio, l’incasso di depositi cauzionali versati dai conduttori o l’escussione di fideiussione bancarie dagli stessi procurate.

Questa norma non ha introdotto dunque alcun “esonero” all’obbligo – che permaneva e permane – di corrispondere il canone di locazione o affitto: essa ha fornito un criterio interpretativo della normativa vigente volto, da un lato, ad attribuire alle conseguenze negative derivanti dall’imposto lockdown la natura di possibili “esimenti” della responsabilità per inadempimento contrattuale del conduttore o dell’affittuario e, dall’altro lato, a “paralizzare “ o “arginare” – sia pure temporaneamente – i rimedi che i proprietari avrebbero potuto mettere in campo per la tutela dei loro diritti, in particolare quello relativo al saldo dei canoni.

L’ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO EX ART. 1460 C.C.

Nell’ordinamento italiano, come in ogni stato di diritto, vige un generale divieto di provvedere da sé alla tutela dei propri diritti e pertanto ogni controversia che insorge sull’adempimento degli obblighi che derivano da un contratto deve essere sottoposta al vaglio di un giudice dello Stato o, se è possibile e previsto dalle parti, a un arbitro terzo.

Il Codice civile, tuttavia, proprio in materia contrattuale, prevede un istituto che, in via di eccezione, costituisce, sotto certi profili, uno strumento di “autotutela”.

Condizioni per invocare l’eccezione di inadempimento

Nel caso dei contratti a prestazioni corrispettive – nei quali la prestazione dovuta da una parte trova la propria giustificazione giuridica ed economica nella controprestazione dovuta dall’altra – l’ art. 1460 c.c. prevede che ciascuna parte possa rifiutare la propria prestazione se l’altra non adempie – o non offre di adempiere contemporaneamente – la propria.

Tale facoltà – giuridicamente definita “eccezione di inadempimento” – può essere tuttavia esercitata solo entro limiti e a condizioni ben precise.

ORIENTAMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE SU PRESUPPOSTI E LIMITI DI APPLICAZIONE DELL’ART. 1460 C.C.

La Corte di Cassazione le ha chiarite nell’ordinanza n. 8760 del 29/03/2019 pronunciata proprio in una controversia su un contratto di affitto d’azienda sorta tra il proprietario di un ristorante e l’affittuario che aveva preso in gestione l’azienda.

Il caso sottoposto al giudizio della Cassazione

La proprietaria dell’azienda aveva chiesto in giudizio la risoluzione del contratto il mancato pagamento, da parte dell’affittuaria, dei canoni di affitto pattuiti; l’affittuaria si era difesa chiedendo anch’essa la risoluzione del contratto ma per responsabilità dell’affittante poiché, a seguito di una ispezione dei Vigili del fuoco, erano emersi problemi di inagibilità di una parte dei locali dell’azienda ai quali era seguita la forzosa chiusura degli stessi e una conseguente perdita di guadagno dell’esercizio commerciale.

Secondo l’affittuario la sopravvenuta indisponibilità di alcuni locali per un problema di irregolarità preesistente la conclusione del contratto aveva reso inadempiente ai suoi obblighi l’affittante che, a fronte della percezione del canone, era tenuto – tra le altre cose – ad assicurare all’affittuario il pieno godimento dell’azienda anche successivamente alla consegna dell’azienda.

Tale inadempimento del proprietario giustificava pertanto, proprio in applicazione dell’art. 1460 c.c., il mancato pagamento dei canoni di affitto pattuiti.

PRESUPPOSTO DELLA PROPORZIONALITÀ E DELLA BUONA FEDE

La Corte di Cassazione, infine investita della questione, ha in primo luogo chiarito che il rifiuto di adempiere la propria obbligazione basato sull’art. 1460 c.c. non può mai prescindere dal rispetto del principio della buona fede che si traduce anche, in capo a chi intende avvalersi dell’eccezione, nella valutazione di una necessaria proporzionalità tra l’inadempimento che contesta alla controparte e quello che intende opporre a propria (auto)tutela.

Nel caso concreto l’ordine di chiusura aveva interessato solo una parte dei locali senza che fosse pregiudicata per l’affittuario la possibilità di continuare a servirsi, in modo separato e funzionalmente autonomo, dei restanti locali, rimasti nel suo pieno godimento e uso.

La Cassazione, giudicando che non vi fosse proporzionalità tra il mancato pagamento dell’intero canone di affitto e il pregiudizio causato all’affittuario dall’indisponibilità di una parte soltanto dei locali, ha giudicato quindi illegittima, in quanto contraria a buona fede, la sospensione del pagamento del canone.

La Corte di Cassazione ha aggiunto infine che l’eccezione ex art 1460 c.c. – anche se fatta valere nel rispetto del principio di buona fede – resta comunque un rimedio necessariamente temporaneo, con effetti unicamente “sospensivi” dell’obbligo di adempiere, e che il giudizio definitivo sulla legittimità o meno del rifiuto di adempiere a una obbligazione spetta pur sempre, in definitiva, al vaglio del giudice.

Anche in questo caso, ove il proprietario contestasse la legittimità del rimedio, l’applicazione dello stesso richiederebbe in ultima istanza l’intervento di un giudice.

LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER IMPOSSIBILITÀ SOPRAVVENUTA DI UNA DELLE PRESTAZIONI EX ART 1463 C.C.

L’art 1463 c.c. prevede, sempre per i contratti a prestazioni corrispettive, che la sopraggiunta impossibilità, per una parte, di adempiere alla propria prestazione conduce alla risoluzione di diritto del contratto; come per il caso della eccessiva onerosità, anche l’impossibilità di eseguire la prestazione deve essere sempre sopravvenuta alla conclusione del contratto e, inoltre, non deve essere imputabile alla parte che la doveva eseguire, nel senso che non deve essere la conseguenza di un suo comportamento colposo o doloso.

Proprio in applicazione di queste norme, il Tribunale di Roma, Sez. V, 29 maggio 2020, si è pronunciata in via d’urgenza su un contenzioso sorto tra l’affittuario di un ramo d’azienda e il proprietario di un negozio di vendita al dettaglio ubicato all’interno di un centro commerciale.

L’affittuaria promuoveva un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. nei confronti del proprietario per chiedere al Tribunale di sospendere per un periodo di 6 mesi il pagamento dei canoni e delle spese di gestione dovuti e inibire alla proprietà di avvalersi della garanzia rilasciata in favore di quest’ultima – una fideiussione bancaria – sul presupposto della mancata esecuzione, da parte del centro commerciale, dell’obbligo di assicuragli il pieno godimento del ramo d’azienda costituito dal negozio di fatto impedito dalla provvedimento di lockdown disposto dal governo a contrasto dell’emergenza Covid-19.

LA “RIDUZIONE AD EQUITÀ” DELLA CONTROPRESTAZIONE EX ART 1464 C.C.

Il giudice romano ha ritenuto che tale mancato godimento “di fatto” non integrasse un inadempimento imputabile al centro commerciale – che non avrebbe certo potuto contravvenire alle disposizioni imperative dell’autorità pubblica – ma configurasse comunque la diversa ipotesi, rilevante ai sensi dell’art. 1464 c.c., di impossibilità “parziale e temporanea” per il proprietario di assicurare la prestazione posta a suo carico e, di conseguenza, concludeva che il conduttore avesse diritto ad una riduzione del canone almeno limitatamente al periodo della chiusura dell’attività imposta per legge.

La prestazione di un contraente può infatti diventare anche solo parzialmente impossibile e, in questa evenienza, il contratto non si risolve automaticamente: la parte che vede, per così dire, ridotta l’utilità che trae dal contratto ha il diritto di ottenere una riduzione della controprestazione commisurata alla perdita ovvero, se non ha più interesse all’utilità così “mutilata”, ha comunque la facoltà di recedere dal contratto.

Nello stabilire l’entità della riduzione del canone, il giudice ha quindi operato una valutazione dell’“utilità residua” del locale aziendale adibito al commercio rimasto chiuso per la vendita ma pur sempre restato nella disponibilità fisica del conduttore e adibito, quanto meno, a “ricovero delle merci” e ha calcolato nel 70% la riduzione del canone dovuto per i mesi di chiusura forzata.

Si tratta per il momento di un indirizzo contenuto in un provvedimento sommario resa in via di urgenza al quale dovrà seguire un giudizio di merito: tuttavia è interessante che il giudice abbia focalizzato la sua attenzione non sul mancato adempimento – totale o parziale – della prestazione dell’affittuario di pagare il canone bensì sull’impossibilità in senso lato “oggettiva” del proprietario dei locali – non riconducibile alla sua volontà o condotta – di assicurare all’affittuario il pieno godimento dei beni affittati.

CONCLUSIONI

In conclusione, può dirsi che, allo stato delle norme, la soluzione di problematiche paragonabili a quelle causate dal lockdown rimane incerta e che, in caso di mancato accordo tra le parti, la stessa richiede sempre l’intervento di un giudice.

Una possibile strumento di soluzione potrebbe rivelarsi l’inserimento nei contratti – almeno in quelli più onerosi della apposite – di specifiche “clausole di salvaguardia” che disciplinino in anticipo le conseguenze sul contratto di avvenimenti straordinari e imprevisti, prevedendo, ad esempio, una temporanea rimodulazione, in base a criteri prefissati, del canone posto a carico del conduttore o dell’affittuario.

Avv. Elena Pagliaretta

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