Recensione negativa su social

Come tutelarsi da post diffamatori pubblicati on-line

Con ricorso in via d’urgenza al Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., il gestore una struttura sanitaria ha recentemente chiamato in causa Google Ireland ltd., società proprietaria della piattaforma informatica “Google My Business” – famoso portale finalizzato alla promozione sul web delle attività commerciali – per chiedere che la stessa fosse condannata alla rimozione di una serie di recensioni negative che alcuni clienti-pazienti della struttura, dopo essersi avvalsi dei suoi servizi, avevano postato sulla pagina creata dalla stessa struttura sanitaria sul citato portale.

ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI ROMA 21.9.2020

Il giudice romano investito della questione, con un’ ordinanza pronunciata il 21.09.2020, ha accolto, sia pure parzialmente, le richieste della struttura sanitaria e, nel provvedere, ha avuto modo di chiarire gli aspetti più controversi di un contenzioso giudiziario nel quale occorre individuare il punto di bilanciamento tra contrapposti diritti fondamentali quali, da un lato, quello della libertà di espressione e di critica degli utenti e, dall’altro, quello all’onore e alla reputazione (anche commerciale) dei soggetti “recensiti” con post pubblicati su siti o social network.

Un genere di controversia molto simile, peraltro, a quelle che coinvolgono sempre più spesso anche i siti di recensione di ristoranti, strutture alberghiere e pacchetti turistici quali Booking o Trip Advisor.

Il Tribunale, nel provvedimento emesso, ha avuto anche modo di chiarire il ruolo – e dunque i doveri e le responsabilità – dell’hosting provider (nel caso di specie Google Ireland ltd) che fornisce lo strumento tecnologico attraverso il quale vengono espressi – e dunque divulgati a tutti i potenziali utenti del servizio – i contenuti “contestati” in quanto ritenuti lesivi della reputazione dei soggetti recensiti.

COSA È GOOGLE MY BUSINESS?

Google My Business è uno strumento gratuito e di facile utilizzo che Google mette a disposizione dei proprietari di attività commerciali o professionali e consiste in una sorta di “scheda” o “vetrina virtuale”– abbinata a un account Google – che contiene al suo interno le principali informazioni relative all’attività,  tra le quali la localizzazione, i recapiti di contatto, l’indicazione e la descrizione dei servizi e prodotti offerti: da tale “vetrina” il motore di ricerca, interrogato su internet da un qualsiasi utente, attinge la maggior parte delle informazioni, da restituire all’internauta, riguardanti l’attività nello stesso descritta e promossa.

Tra le informazioni restituite ci sono anche le eventuali recensioni – pubblicate in una specifica sezione del profilo – da utenti che si sono già serviti delle prestazioni e dei servizi offerti dai titolari dell’attività alla quale si riferisce il profilo Google My Business.

IL CASO SOTTOPOSTO AL TRIBUNALE DI ROMA

Una struttura sanitaria lamentava la pubblicazione sulla propria “vetrina” creata nella citata piattaforma di alcuni post di utenti che veicolavano recensioni ritenute gravemente diffamatorie della sua reputazione in quanto contenenti rilievi molto critici sulle prestazioni fornite dalla struttura, sulla professionalità del personale impiegato presso la stessa e sulla esosità dei prezzi richiesti.

Questi giudizi poco lusinghieri, denunciati come falsi e finalizzati, a dire della struttura sanitaria, a denigrare intenzionalmente la qualità dei servizi dalla stessa offerti, erano giudicati idonei, sempre dalla ricorrente, a trarre in inganno il potenziale consumatore che si fosse imbattuto nella lettura delle recensioni e, di conseguenza, costituiva una fonte di un grave pregiudizio per la sua immagine e per la sua reputazione e, potenzialmente, per la sua attività economica.

La struttura sanitaria esponeva al Tribunale di avere chiesto al provider gestore del servizio – Google Ireland ltd appunto – la rimozione senza ritardo delle recensioni ritenute lesive ma di avere ottenuto dalla stessa solo l’eliminazione di una minima parte di quelle contestate; da qui la decisione di rivolgersi al Tribunale di Roma per ottenere la condanna, nei confronti del provider, alla rimozione delle ulteriori recensioni denunciate come pregiudizievoli e ancora memorizzate – e quindi visibili – su piattaforma informatica di Google My Business.

Google Ireland ltd si opponeva in giudizio alla richiesta di condanna formulata nei suoi confronti dalla struttura sanitaria affermando di aver provveduto alla rimozione di tutta una serie di recensioni e di aver invece mantenuto altre ritenendole legittima espressione del diritto di critica degli utenti.

ESISTE UN OBBLIGO DI RIMOZIONE DEI CONTENUTI A CARICO DEL C.D. HOSTING PROVIDER?

Il primo aspetto affrontato dal Tribunale di Roma nel suo provvedimento riguarda la configurabilità – apertamente contestato dalla difesa Google Ireland ltd – di un obbligo di rimozione dei contenuti a carico dei cosiddetti hosting provider.

L’”hosting” (dal termine inglese “to host”, ospitare) è quel servizio di rete – fornito da soggetti specializzati definiti provider, ovvero fornitori – che consente la collocazione su un server del provider stesso – ovvero un’attrezzatura elettronica di trattamento e di memorizzazione di dati – di pagine di un sito web o di un’applicazione web di soggetti terzi – i cd. client, ovvero i clienti del provider – i quali ne gestiscono in piena autonomia il contenuto.

La allocazione dei contenuti sul server del provider consente quindi ai potenziali destinatari dei servizi o dei prodotti offerti dei client di accedere ai siti web di questi ultimi e di visionarne il contenuto e, del caso, usufruire dei servizi offerti.

Vi è dunque, semplificando al massimo, una distinzione di titolarità tra proprietario e gestore del “contenitore” – il server – e il proprietario e autore del “contenuto” – il sito web “ospitato” sul quale vengono pubblicati e diffusi i post.

Occorre quindi capire se il provider – che in questo schema funge da prestatore di servizio, quello di hosting appunto – possa o meno essere chiamato a rispondere degli eventuali illeciti posti in essere dai client oppure dagli utenti che, per il tramite della struttura messa a disposizione dal provider – accedono alla rete e lì interagiscono mediante, ad esempio, la pubblicazione di post o commenti.

LA NORMATIVA APPLICABILE: D.LGS. 70/2003

Il Tribunale di Roma ha innanzitutto precisato che la Google Ireland ltd., in quanto soggetto “comunitario” avente sede legale a Dublino, è direttamente soggetta alla disciplina del D.lgs. n. 70/2003 che ha dato attuazione in Italia alla Direttiva 2000/31/CE che ha dettato disposizioni su taluni aspetti giuridici del commercio elettronico e dei servizi della società dell’informazione.

In base al D.lgs. n. 70/2003 – specificatamente gli articoli 15 e 16 – Google Ireland ltd aveva agito quale “caching provider” relativamente alla creazione delle schede di presentazione dell’attività commerciale della struttura sanitaria che erano pubblicate e visibili on-line per tramite del suo server e come “hosting provider” relativamente alle recensioni degli utenti in esse pubblicate.

Assenza di obbligo di sorveglianza preventiva

Secondo i principi generali derivanti dalla normativa citata, il Tribunale ha chiarito che non è prospettabile a carico dei providerun obbligo generale di sorveglianza preventiva sulle informazioni che trasmette o memorizza, un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

Conseguentemente, salvo che si dimostri che il provider fosse effettivamente a conoscenza che l’attività effettuata o l’informazione trasmessa attraverso i suoi server fossero manifestamente illecite, ad esso non può essere contestata, in prima battuta, alcuna responsabilità.

Al contrario grava sul provider fornitore del servizio di hosting il dovere di effettuare un controllo successivo a seguito della segnalazione di fatto illecito da parte di un destinatario del servizio stesso.

Obbligo di controllo successivo a una segnalazione o a una diffida

Dunque, al momento della conoscenza, per diffida o c.d. segnalazione, del potenziale contenuto illecito di una pagina, il gestore del servizio ha l’obbligo di attivare un controllo o meglio di fare una valutazione dei contenuti contestati rimanendo tuttavia rimesso al suo giudizio – e dunque alla sua responsabilità – la decisione di rimuovere o meno i contenuti avuto riguardo ai parametri previsti nelle condizioni di utilizzo della piattaforma online.

L’obbligo di rimozione invece – così come configurato ex art. 16 del richiamato decreto legislativo – non può che ritenersi legato ad un provvedimento giudiziale che accerti l’illiceità del contenuto.

In sostanza, una volta ricevuta la segnalazione di un contenuto ritenuto illecito, il provider ha di minimo un obbligo di verifica della conformità dello stesso alle condizioni di utilizzo della piattaforma: è rimessa invece alla sua valutazione la decisione di rimuovere o meno il contenuto alla luce, da una parte, di un giudizio di conformità alle condizioni di uso della piattaforma e, dall’altro, di rispetto di alcuni parametri di valutazione individuati dalla giurisprudenza.

PARAMETRI DI VALUTAZIONE DEL CONTENUTO DEI POST

Il Tribunale ricorda che la pubblicazione di una recensione su una piattaforma on-line altro non è che una manifestazione della libertà di pensiero e che, traducendosi nell’esercizio del diritto di critica, per sua stessa natura contempla anche la legittima espressione di un aperto dissenso, incontrando il solo limite – che non deve essere superato – dell’invettiva gratuita, della consapevole rappresentazione di circostanze artatamente falsate, o dell’uso di toni o termini apertamente e inutilmente lesivi della dignità altrui.

Divieto di invettiva gratuita o termini gratuitamente lesivi

È dunque possibile che le opinioni veicolate on-line (cd. feedback degli utenti), superando il limite specificato in quanto espresse in modo non pertinente e/o non continente, integrino l’ipotesi della diffamazione e conseguentemente aprano le porte e possibili richieste di risarcimento danni.

Esaminate le recensioni “incriminate”, il Tribunale di Roma ha sottolineato come la quasi totalità delle stesse facesse riferimento – sia pure dal punto di vista soggettivo degli utenti – all’attività della struttura sanitaria e riguardasse circostanze di fatto quali il comportamento dei medici della struttura, la scortesia degli operatori ivi impiegati, le tempistiche relative alle prenotazioni, senza di contro integrare alcuna diretta critica alla sfera privata di singoli individui.

Coloriture e iperboli consentite se proporzionate e pertinenti

Il Tribunale di Roma ha chiarito – anche sulla scorta di una consolidato orientamento della Corte di Cassazione – che l’elemento discriminante tra “critica legittima” e “diffamazione” consiste nell’aderenza della critica, seppur polemica, a un fatto reale, essendo consentite le coloriture e le iperboli, così come i toni aspri o un linguaggio figurato o gergale, purché proporzionati e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori – nel caso specifico la tutela della salute – che si ritengono compromessi.

Il Tribunale ha poi sottolineato come le espressioni si riferissero ad attività svolte in un pubblico esercizio e che, per ciò stesso, il diritto di critica doveva ritenersi più ampio perché colui che intraprende un’attività commerciale accetta implicitamente il rischio che la clientela non sia soddisfatta dei suoi servizi e che su di essa esprima, quindi, giudizi poco lusinghieri senza che sia richiesto il rigore tecnico ed espositivo della critica giornalistica.

Avv. Elena Pagliaretta

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